domenica 25 ottobre 2009

Geografia umanistica


Non è un segreto per nessuno che tra me e la geografia non ci sia un gran feeling (e non dite che non ve ne eravate accorti!). Ma questa non può essere una scusa per non farla bene in classe, quindi bisognerà darsi da fare...
L'unica volta che mi sono sentita coinvolta da questa disciplina è quando ho seguito le lezioni dei mitici prof. Fabio Lando e Alessandro Voltolina alla SSIS (scuola di specializzazione per l'insegnamento) tre anni fa.
La mia motivazione a seguire il corso era scarsissima, ma, poichè non c'era possibilità di scelta, mi sono apprestata a bere l'amaro calice.
Fin dalle prime lezioni ho capito che la prospettiva da cui veniva affrontata questa materia era molto diversa da come, di solito, viene presentata nei libri: non solo carte geografiche, monti, fiumi, città, stati, dati di ogni genere e nomi impronunciabili, ma tanta, tanta, tanta letteratura.
Beh, direte voi, cosa c'entra la letteratura con la geografia? C'entra, c'entra... e per fortuna che c'entra! In poche parole, la geografia umanistica si propone di utilizzare la letteratura come un importante "mezzo di investigazione" per i geografi poichè permette di conoscere meglio e di chiarire quali sono le relazioni emotive che intercorrono tra uomo e ambiente, di capirne i nessi e interpretarne i significati. Questo accade quando lo scrittore, attraverso le sue parole, riesce a trasmettere al lettore il legame profondo che c'è tra uomo e ambiente.
Capite bene che la faccenda comincia a farsi interessante...
Ecco, vi invito ad osservare, nei libri che avete letto o che leggerete, se c'è una qualche traccia di tutto questo.
Per il momento vi offro solo uno spunto di riflessione attraverso le parole di un grande scrittore:

Gli alberi! ci sono gli alberi!
Il grido partito dalla prima delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro, pressoché invisibili nella nuvola di polvere bianca; e ad ognuno degli sportelli volti sudati espressero una stanca soddisfazione.
Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli eucaliptus, i piú sbilenchi figli di Madre Natura. Ma erano anche i primi che si avvistassero da quando, alle sei del mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente delle discese; passo e tratto, del resto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere, che ormai non si percepiva piú se non come manifestazione sonora dell'ambiente arroventato. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurrino tenero, stralunati; su ponti di magnificenza bizzarra si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d'acqua: sole e polverone.
dal Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa